Non è di certo un segreto, “I vagabondi del Dharma” è il titolo di un libro di Jack Kerouac, un autore che ho idolatrato quando ero giovane. Ho deciso di citarlo perché “I Vagabondi del Dharma”, illustra meglio di qualunque altra descrizione il mio destino e quello di tutti i miei compagni di viaggio accomunati dall’essere passeggeri su questa capsula spazio-temporale che è il pianeta Terra. Il titolo di questo libro rimbalza nella mia testa almeno da cinquanta anni; come dicevo, all’epoca ero un adolescente. È un testo che mi ha girato prima tra le mani e poi, dopo averlo perduto, nella mente più di quanto abbia fatto il più famoso capolavoro della Beat Generation scritto da Jack Kerouac: “Sulla Strada”. Lo ha fatto per anni senza che io fossi in grado di capirne un granché. Da giovane ne intuivo solamente il senso, limitandomi ad immaginare come il viaggio andasse oltre la ricerca della sola libertà fisica. Più tardi ho capito che beat deriva dalla condizione di beato, quella alla base della ricerca esistenziale di tutta la Beat Generation: l’avresti detto? L’hanno trovata?
Poi nella mia vita si sono succedute almeno due cose che hanno consentito di fare qualche passo avanti nella comprensione consapevole del libro: la prima me l’ha portata in dono l’età che, ahimè, molto toglie, ma qualcosa aggiunge. Questa cosa ha a che fare con i risultati dello studio, con l’esperienza accumulata, con la consapevolezza creata e in termini neuroscientifici con le maggiori connessioni sinaptiche alla base delle informazioni accumulate nel nostro cervello.
La seconda è frutto della mia lunga esperienza di India.
Qualcuno tra chi mi legge sa fino alla nausea che una dozzina di anni fa, attratto da un bisogno interiore a lungo coltivato, mi sono imbarcato in una esperienza di volontariato presso un orfanotrofio indiano che mi ha portato a fondare un ente di assistenza a sostegno dello stesso. È così che ho avuto modo di confrontarmi con la cultura indiana attuale, la più antica del mondo, che affonda le sue origini in più di cinquemila (c’è chi dice ottomila) anni di tradizione. Posso dire che lo studio della cultura indiana non è semplice come argomento, io non ne sono di sicuro all’altezza, fior di studiosi ne trattano, ma nel mio piccolo quello con cui mi sono soprattutto confrontato sono i comportamenti della gente durante la vita quotidiana in India. Comportamenti indubbiamente frutto della loro cultura. Come medico, coinvolto nella gestione di un ambulatorio medico e dentistico, ho avuto modo di conoscere molte persone entrando nell’intimità della loro vita senza peraltro riuscire a scalfire la corazza delle convinzioni profonde, ammesso che ne avessero una consapevolezza cosciente. Non l’ho mai pretesa la complicità, ma il lavoro gomito a gomito talvolta abbatte certe barriere, la quotidianità dovrebbe creare fiducia e lealtà reciproca perché il contatto con la sofferenza altrui accomuna. In India meno, forse perché prima di tutto bisogna difendersi da ogni cosa e perché conservare l’integrità di sé stessi senza perdersi è una pura questione di sopravvivenza e poi, se stai così, è frutto di tuoi comportamenti in precedenti reincarnazioni. Da semplice medico volontario ho potuto constatare come la meraviglia, lo stupore, l’incanto, dei bambini indiani, comune a quello di tutti i bambini del mondo, crescendo viene sostituito da qualcosa che ora so con sicurezza essere gli effetti del Dharma, inteso come dovere, come destino, come legge cosmica universale, come il modo in cui le cose sono e devono rimanere. Se ci pensiamo bene, il Dharma è una cosa che travalica l’India, ma non ne parlerò qui; in India ho toccato con mano la rassegnazione apparente a questa condizione umana.
La definisco apparente perché nessuno di quelli che ho frequentato è neppure lontanamente felice (non ho conosciuto sadhu illuminati dalla Moksha) anche se rassegnato; di conseguenza ho potuto toccare con mano la sofferenza rispetto alla propria condizione e soprattutto i tentativi nascosti e dissimulati per sottrarsi alla propria condizione. Maldestramente dissimulati, ma evidenti agli occhi di chiunque, in mondo dove non c’è spazio per l’intimità personale, dove non c’è spazio per nascondersi. I tentativi dissimulati per non cadere vittime del giudizio altrui, cosa che porterebbe a vergogna profonda, della quale alla fine non ci si preoccupa se non nella forma. La luce si è spalancata ai miei occhi quando ho dovuto assumere posizioni pubbliche di responsabilità in rappresentanza dei sostenitori del nostro progetto in favore dei bambini. A quel punto ho avuto a che fare con istituzioni, con Fondazioni, con Università, con quella che viene chiamata ipocritamente “la società civile”. Più salivo e più la forma prendeva consistenza, in una recita in cui tutto era simbolicamente smussato, ogni discorso era carico di sottotesti, di sguardi di intesa. Quando si parlava del bene dei bambini non si faceva molto per il bene concreto dei bambini. Il sistema delle caste è stato abolito ufficialmente, ma è tuttora ben radicato, mi è bastato vedere come cambiano i comportamenti di chi ha lavorato con me a seconda dell’interlocutore che se uomo, di casta alta e reddito elevato ha sempre suscitato una deferenza a me incomprensibile, che va molto oltre il semplice rispetto.
Ma tornando alla rassegnazione dissimulata l’ho trovata alla base dei comportamenti più odiosi con i quali ho dovuto confrontarmi: tra questi il costante tentativo di chiunque di trarre un vantaggio dalla propria condizione, sempre e ovunque, che poi sia a discapito di chi sta peggio non importa, anzi. Il pensiero è questo: di fronte ad un torto il potente se può te la farà pagare, mentre l’impotente è e rimarrà impotente. Mi direte che sono un ingenuo, che la vita è questa, che è così ovunque. Lo ammetto, sono ingenuo ma indignato. Mi ha colpito al cuore il confronto con persone non accomunate dall’essere un popolo, non c’è un popolo in India, ma essere parte di un meccanismo in cui ognuno ha il proprio posto, perché è giusto così. Ciascuno è aggrappato alla propria ruota di criceto su cui corre senza tregua, ognuno cercando di saltare senza troppi scrupoli sulla ruota del vicino pensando di trarne un vantaggio: ed è così ovunque io abbia lavorato laggiù. La vita in India è un gioco serio, ben più che da noi, questo spiega benissimo la situazione che ho descritto, in India non ci sono gli ammortizzatori sociali, la morte è sempre presente, ci si abitua a questa fino all’indifferenza, figurarsi se si fa caso all’imbroglio.
E così tra queste immensità s’annega il pensier mio, ma il naufragar non è per nulla dolce in questo mare, anzi è amarissimo e non mi sovvien l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei, per nulla, al pensiero degli sguardi pieni di bisogno di amore che ci lanciano i bambini orfani indiani.