Quando ero un bambino amavo i Beatles. Con tutto il cuore. Gli anni dellamia infanzia sono stati scanditi dalle loro canzoni che riuscivano ad emozionarmi più di tutte le altre e ci riescono ancora oggi. Mia zia Ingrid, che a quel tempo viveva ad Amsterdam, venendo in Italia per salutarci a bordo della sua Fiat 124 spider rosso fuoco, mi regalò un meraviglioso mangiadischi, rosso pure lui, insieme al disco a 45 giri (45rpm) di “Lady Madonna”. Toccavo il cielo con un dito ascoltando a pieno volume il ritmo martellante della canzone mentre il vento accarezzava i nostri capelli. “Lady Madonna…Who finds the money when you pay the rent,Did you think that money was heaven sent”. Ascoltai quel disco fino a consumarne i solchi. Poco più tardi, ero già alle scuole medie inferiori, mi appassionai ai racconti relativi ai viaggi intrapresi dai Beatles in India per apprendere gli insegnamenti del Maharishi Manesh Yogi. Da quel momento il Beatles che mi affascinava di più divenne George Harrison. “My Sweet Lord” e l’intero “The Concert for Bangladesh” mi segnarono nel profondo. Nel corso degli anni ’70, ormai il quartetto si era sciolto, seguivo il percorso musicale individuale di ciascuno di loro; anche dopo essersi divisi i Beatles segnarono la storia della musica con capolavori tra i quali“Imagine”. L’8 dicembre del 1980 stabilì per me un prima ed un dopo. La morte di John Lennon segnò l’impossibilità che i Beatles potessero riunirsi un giorno come tutti i fan desideravano da anni. Da allora, ogni volta che mi accade di passare per New York (non pensate che accada spesso), faccio sempre una passeggiata fino al Dakota Building, in Park Avenue West, di fronte al quale sono stati allestiti gli Strawberry Fields, esattamente dove John cadde colpito a morte da quello squilibrato di Mark David Chapman. È il luogo giusto per ricordarlo e per fare alcune riflessioni sulla vita.
Fino a quell’epoca ai miei occhi c’erano solo i Beatles. Non capivo il senso della contrapposizione tra i FabFour ed i Rolling Stones. Certo che li conoscevo. Fin da bambino risuonava nelle mie orecchie il riff di “Satisfaction (I can’tget no)”, rinforzato nel tempo dalle cover che ne fecero i Drifters, ne possedevo il 45 giri, ed i Devo più tardi. Impazzivo per “Tutto nero” interpretata da Caterina Caselli, cover italiana di “Paint it Black”, la canzone in cui Brian Jones introdusse il Sitar anche nella musica dei Rolling Stones. Ma i Beatles, allora, erano un’altra storia per me. Ricordo un inverno, potrebbe essere stato il 1977, Gaspare(compagno di gioventù e di mitizzazioni soprattutto musicali) ed io entrammo al cinema Excelsior dove veniva presentato un Docufilm( allora non si chiamava così, ma per capirsi…) sui Beatles. Al termine dello spettacolo veniva data la possibilità di iscriversi al“FanClub dei meravigliosi quattro”. Aderimmo subito fornendo i nostri dati e i soldi. Nulla seguì quell’esborso, neppure un grazie. Da qualche parte conservo ancora la tessera. Quando sono diventato più grande ho man mano acquistato tutta la loro discografia su CD. Al tempo del vinile non avevo i soldi (e neppure lo stereo) per permettermi di comprare i loro meravigliosi LP. La discografia l’ho poi riversata su iTunes nel mio Mac. In occasione di qualche anniversario della band, compro una edizione speciale rimasterizzata dei loro successi. Ricordo con piacere la raccolta di canzoni chiamata LOVE; si tratta della colonna sonora di un musical interpretato dal Cirquedu Soleil. In un’epoca dorata e passata, mentre ero di passaggio a Las Vegas, ebbi la fortuna di assistere al loro show in un teatro appositamente allestito. Fu commovente poterlo vederlo con le mie figlie adolescenti e mia moglie durante un bellissimo viaggio di ritorno dall’Hotel California, quello della Baja, in Mexico. E poi il tempo passa, “As time goes by” cantava Sam in Casablanca facendoci luccicare gli occhi, infatti “Astears go by” cantano i Rolling Stones in una strepitosa canzone che si è infiltrata in me fin da fanciullo come un virus si insinua in un organismo estraneo. In questo modo ho scoperto che la musica degli Stones era già dentro di me fin da quando ero un bimbo. La loro riscoperta da parte mia da adulto ha emotivamente riattivato circuiti neuronali sopiti da tempo. La loro musica aleggiando nell’etere degli anni sessanta deve aver lasciato un’impronta profonda, un imprinting emotivo in me che non può essere più rimosso; il piacere provato da bambini non è frutto di elaborazioni mentali, di interpretazioni o di riflessioni critiche, è pura emozione. Per questo è così schietto e diretto. Ed è puro. Cosa ha fatto riemergere i Rolling Stones che covavano dentro di me? La lettura della biografia di Keith Richards.Si tratta di uno dei libri più belli e celebrati degli ultimi anni; il titolo del volume è “LIFE”; semplicemente. Nel caso di Keith non si tratta di una sola vita; lui è precipitato molto in basso tante volte, ma poi si è sempre rialzato. Il libro racconta tutto questo, partendo dagli anni della formazione mentre l’Inghilterra usciva da un triste dopoguerra e la SwinginLondon stava prendendo corpo, proseguendo con il racconto nudo e crudo ( quasi cinico) di tutti gli episodi che hanno caratterizzato la vita di una band che il tempo ha trasformato in un mito. Quando i Beatles erano già al culmine del loro successo, un giornalista chiese a John Lennon cosa pensasse dei Rolling Stones. Lui ripose che si trattava di una ottima band di cover di successi blues. È stata una provocazione giornalistica, non voglio credere che John Lennon volesse sminuire quelli che il tempo trasformò nei rivali dei Beatles; d’altronde c’era della verità in quelle parole; tutto è partito dal blues. Quello che non era ancora possibile sapere era che i Rolling Stones, da una delle tante blues band, si sarebbero trasformati nella più longeva Rock’n Roll Band di sempre.
I Beatles, al contrario dei Rolling Stones, non avevano molte probabilità di sopravvivere alle dimensioni del loro successo planetario. La qualità stilistica della loro inventiva musicale, l’elaborazione creativa, la sofisticazione tecnica divennero così elevate che da un determinato momento non poterono più esibirsi in pubblico. Il quinto Beatles vero, George Martin, li portò a livelli produttivi così elevati in studio che il livello tecnico delle attrezzature musicali dell’epoca non era in grado di riprodurre dal vivo. Questo creò una frattura con i fan più stretti, quelli che tutti ricordiamo urlanti durante il concerto allo Shea Stadium. Da un lato il successo mondiale delle produzioni discografiche dei Beatles divenne straordinario, dall’altro l’enorme pressione che questo successo generò, allontanò i membri della band l’uno dall’altro.
I Rolling Stones invece non smisero mai di suonare dal vivo. Persino la morte di Charlie Watts non li ha fermati. La loro musica è sempre stata più sporca produttivamente, meno asettica. Si tratta della sporcizia che esiste nella vita vera e che prende nelle viscere milioni di fans. In loro si è condensata una alchimia tra personalità contrapposte che è riuscita a sfornare per più di un decennio un capolavoro dopo l’altro. Un decennio? Lo ammetto, sono tra quelli che pensano che la loro vena creativa si sia inaridita nel tempo. La loro forza è quella di continuare a vivere una esistenza a dir poco turbolenta per riversare poi tutta questa energia, sublimandola, nei concerti dal vivo che anche dopo cinquanta anni continuano a trasmetterla. Non lo avrei mai creduto fino al giorno in cui l’ho potuto vedere e sentire con i miei occhi, le mie orecchie e il mio cuore. Il loro show è tuttora perfetto, in grado di trasmettere in maniera inalterata l’energia iniziale a tutto il pubblico. Ci si aspetterebbe che a furia di reinterpretarsi i Rolling Stones si siano trasformati in caricature di sé stessi. È vero solo dal punto di vista estetico, sono vecchi a vedersi, ma non sono di certo professionisti senza anima. Sono incredibilmente vivi e vitali. Non saprei dire se si tratti di vero professionismo, di talento naturale, di pura energia o di tutto questo mescolato insieme. Vedere per credere: l’ultimo concerto tenuto a Las Vegas, aperto dai Maneskin, è lì a testimoniarlo su You Tube con la possibilità per chi non c’era (come me) di riassaporare il loro sound inconfondibile. Nessuno tra le centinaia di bands di successo degli ultimi sessant’anni è riuscito in questa impresa. La musica dei Rolling Stones insieme a quella dei Beatles è qui a testimoniare alle future generazioni che l’umanità in occidente negli anni sessanta ha vissuto un momento particolarmente felice. Tutti credevano nel futuro, nella possibilità del cambiamento, in nuovi rapporti interpersonali, nel potere della musica e dell’amore. Un sogno che si è infranto ad Altamont aprendoci gli occhi sul fatto che non esiste Paradiso senza un Inferno; ma la musica degli Stones è ancora qui per ricordarci che se lo abbiamo pensato è possibile realizzarlo. “If you can think it, you can make it!”