Scroll to top

L’ASSURDA BARRIERA TRA SCIENZA E STUDI UMANISTICI IN ORTODONZIA


Ugo d'Aloja - 28 Aprile 2022 - 0 commenti

L’università italiana si sta finalmente accorgendo che il pregiudizio che sta alla base della separazione tra studi scientifici e studi umanistici deve essere superato. Per questo alcune università italiane stanno istituendo corsi di laurea specifici all’interno dei quali la mente degli studenti possa aprirsi ad una visione più ampia e trasversale.

Mi chiedo quando questo accadrà anche nel mondo dell’Ortodonzia.

Uno dei più grandi temi della professione ortodontica è lo sbilanciamento dell’interesse degli ortodontisti verso gli aspetti tecnici specifici della materia rispetto a quelli relazionali con i pazienti; è un problema in un mondo in cui ormai la competenza verticale non basta più anche se essa rimane una condizione indispensabile per fornire un servizio di qualità. La conseguenza di questo sbilanciamento di interesse è che il rapporto tra medico e paziente diventa squilibrato disumanizzando la relazione terapeutica.

Affronto questo argomento, senza essere ascoltato, da anni; non è un ruolo di cui vado fiero quello di vestire i panni dell’incompreso o del predicatore nel deserto. Qualcuno potrebbe obiettare: “ma perché non ti poni una domanda!”. Me la sono fatta questa domanda, spesso; ho scoperto che è un tema scomodo, spinoso, che si preferisce evitare di affrontare perché trae origine dalla irrisolta identità un po’ ambigua di quel dentista/barbiere/odontotecnico abusivo da cui in parte discendiamo e della sua formazione inizialmente subordinata a quella del medico in cui hanno voluto collocare l’odontoiatra (ricordate l’odontopuffo?), con tutte le implicazioni etiche e deontologiche che ne conseguono; a questo proposito circolava una battuta, amara, che recita così: “Se non sei un bravo chirurgo, puoi sempre fare il medico; se non sei un bravo medico puoi sempre fare il dentista e se non sei un bravo dentista ci sarà sempre un bravo odontotecnico abusivo che ti aiuterà”. Riso amaro! Ma questo è il retaggio del passato. Oggi il tema centrale è quello di giungere anche da noi ad una dimensione professionale matura e consapevole in ambito ortodontico. Ne siamo ancora molto distanti; l’Ortodontista inteso come professionista riconoscibile al pubblico in un proprio studio, identificabile con chiarezza nel proprio territorio, qui in Italia, al contrario che negli altri paesi avanzati, è una mosca bianca.

Troppi giovani (e non solo) ortodontisti sono costretti a esercitare da peripatetici, con la valigetta in mano, trasferendosi di studio altrui in studio altrui, fornendo consulenze in subappalto a dentisti o a cliniche dentali che di ortodonzia non sanno nulla. Ho affrontato questi argomenti fin dai tempi dell’università, mentre mi specializzavo in ortodonzia; erano anni di enorme apertura intellettuale, stavamo cercando di rendere adulta l’Ortodonzia in Italia, dando valore sociale e riconoscimento pubblico a chi si dedicava in maniera esclusiva alla professione di ortodontista, facendolo uscire dal ghetto di cultore di una materia affine all’odontoiatria, ma meno importante perché dedicata ai bambini.

Sono stati gli anni nel corso dei quali ha iniziato ad apparire la figura dell’ortodontista specialista. Dopo il diploma per 15 anni ho tenuto un seminario sulla comunicazione e sulla gestione della professione ortodontica agli studenti della scuola di specializzazione in ortodonzia dell’università di Ferrara, cercando di creare una consapevolezza di sé nella categoria che si trasformasse in orgoglio. In questi ultimi venti anni ho testardamente presentato relazioni su questo argomento ai congressi della SIDO(società italiana di ortodonzia), a convegni del SUSO(sindacato unitario specialisti in ortodonzia), a congressi dell’ASIO (associazione specialisti italiani in ortodonzia) e dell’AIdOR (accademia Italiana di Ortodonzia) e alla fine, per un confronto/conforto, perfino presso alcune scuole di ortodonzia straniere (in paesi dove la consapevolezza su questo aspetto della professione è maggiore), partendo sempre dallo stesso presupposto: la difficoltà intrinseca dell’ortodonzia e talvolta l’inadeguatezza della formazione di base costringono i giovani ortodontisti a concentrarsi sulla manualità, sulla tecnica, a discapito dell’aspetto relazionale. Si può dire che troppo spesso ci si concentra sui denti scordando che i denti sono attaccati ad una persona.

L’avvento del digitale, che promettendo futura semplicità nell’immediato complica, non aiuta ancora ad eliminare questo squilibrio. La stessa terminologia utilizzata da noi ortodontisti contribuisce a mantenere questo status quo; mentre ci confrontiamo tra ortodontisti parliamo di casi, o meglio definiamo i pazienti come casi di classe due o tre o casi facili o casi difficili. Definiamo i pazienti in base alle loro caratteristiche morfologiche o origini etniche rischiando di perdere di vista l’umanità della persona che ha deciso di affidarsi alle cure delle nostre mani. So perfettamente che nella maggior parte di noi non c’è nessuna intenzionalità negativa in tutto ciò, so bene che è comodo utilizzare questo lessico, so bene che abbiamo sempre fatto così (che è una frase davvero terribile, prima di tutto perché è falsa e poi perché chiude a ogni possibilità al cambiamento in meglio), ma è necessario uscire dalla nostra zona di comfort per affrontare un cambio di paradigma.

Uscire dalla “comfort zone” serve per diventare consapevoli di sé stessi, quindi del nostro prossimo, poi del potere del nostro linguaggio, cioè del significato delle parole che ci connettono a chi ci sta di fronte. Le parole sono frutto di scelte, scelte fatte in altri momenti o altre epoche che poi si trascinano nel tempo, continuando a influenzarci. Le parole non hanno mai nulla di casuale in sé. Una volta c’era il DOTTORE, non lontano discendente dello sciamano, che indiscusso dispensava alla tribù la propriasapienza/scienza, al giorno d’oggi, nell’epoca del relativismo culturale, l’era del “dr. Google”, tutti presumiamo di sapere mentre nessuno sa di non sapere. Questa è la ragione per cui un approccio umanistico combinato al metodo scientifico, un approccio che utilizzi un linguaggio veramente facile per tutti, potrebbe aiutare a rendere più forte quella alleanza terapeutica tra medico e paziente senza la quale nessun trattamento, nessuna terapia, nessuna cura avrà mai un pieno successo.

Condividi

Articoli correlati

Commenta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *